2° Principessa Deborah

 

IL CAMPIONE DEL REGNO
Riccardo Massucco e Ilaria Moriconi Laboratorio Giovani Adulti
Paperville

 

Francesco Poggiali Laboratorio Ragazzi
Alcuni Film arrivano in ritardo al cinema

 

Flavia Ferrandino Laboratorio Ragazzi

 

Rebecca Lucchesi, Ambra Passetti (giovani adulti) e da Giulia Botti (giovani).

 

Mattia Lombardi Laboratorio Giovani Adulti
Sono le due di notte. È tardi. Sono appena tornata da una festa, e con la mia solita fortuna la macchina mi ha abbandonata proprio fuori dal mio quartiere. Dovrò raggiungere casa a piedi…

Inizio ad addentrarmi nei vicoli, stretti e tetri, con la speranza di uscirne presto. È buio, e vista da qua la città sembra ancora più oscura della notte, c’è solo qualche lampione ogni tanto… Ma niente di più. Ho un pessimo senso dell’orientamento. Perfino di giorno riesco a perdermi per queste strade… E di certo non aiuta il Buio in Città.
Inizio a non capirci più niente. Inizio a perdere le speranze che avevo. Inizio a crollare… Ho freddo… Ho sonno… Voglio tornare a casa.
Ho il terrore che qualcosa possa sbucare da dietri l’angolo, e solo a pensarci mi si chiude la gola dalla paura.
Ma… Aspetta… Quella là è… Oddio… La Chiesa. Ho capito… Finalmente ho capito dove sono… Solo pochi passi… E … Eccomi… Casa.
Quasi non mi sembra vero. Prendo subito le chiavi così… No… Dove sono?… Le avevo… Giuro che… Ah… Le ho in mano.
Ok. Respira.
BuonaNotte.

 

Giacomo Favilli Laboratorio Giovani Adulti
Con questo progetto, ho voluto rappresentare come in una metropoli
/città, esattamente come con le Lego, si possono creare tante cose e raccontare tante storie.

 

Rinaldo Merelli Laboratorio Giovani Adulti
Correva l’anno 2017, era settembre, e non appena l’intera città di Livorno si svegliò apprese, chi fin da subito chi poco dopo, cosa fosse successo la sera precedente, cosa avesse scosso la quiete della città; tutti, infatti, avevano capito che un terribile alluvione, mentre gran parte della città dormiva, aveva portato scompiglio, distruzione, feriti e per sfortuna anche morti a Livorno e nei suoi dintorni.
Quando le persone che furono colpite più duramente dall’alluvione, vennero a conoscenza di ciò che gli era stato portato via, rimasero per un’istante allibite e scioccate, senza comprendere cosa avessero fatto di male per meritare una disgrazia simile; ma resisi conto dell’intera situazione non rimasero ferme ad aspettare che tutto si risolvesse per conto suo, poiché erano ben consapevoli che non sarebbe mai successo. Quindi senza perdersi d’animo iniziarono a lavorare duramente giorno e notte per riuscire a salvare il salvabile, e rimuovere invece ciò che ormai era perduto; ma non solo chi venne colpito lavorò duramente, ma tutta Livorno si mobilitò per riportare la città fuori da quel fango e da quei detriti che la sotterravano. Mentre si girava per la città vedevi persone di ogni età lavorare e portare soccorsi a chi era rimasto bloccato, dai ragazzi giovani ai più anziani, con un sorriso stampato in volto che mostrava segnali di rinascita e di speranza.
Non fu ovviamente un lavoro di pochi giorni, poiché anche se si contava sull’aiuto di tutta la città, la mole di lavoro era assai grossa tra case distrutte o invase dai detriti e dal fango, ma grazie al duro e insistente lavoro di tutti, la città rivide finalmente la luce e la gioia di vivere.
E non appena si videro i camion ricolmi di fango e detriti sparire dalla città di Livorno, per portare lontano da lì quei terribili ricordi di un momento buio della città, tutti poterono finalmente tirare un sospiro di sollievo e gioire del loro operato, e finalmente tornare a vivere quotidianamente nella semplicità e nella felicità, ma avendo sempre impresso nella propria mente ciò che era successo e ricordando di come Livorno si fosse unita per fronteggiare un problema ritenuto invalicabile, ma che alla fine è stato superato grazie alla collaborazione di tutta la città.
Filippo Fantini Teatro Bambino

 

Anna Mariggiò Teatro Bambino

 

Regina Niki Fuori Concorso
Zero

Alzati!
Mmghrmmm…
Alzati è tardi, quante volte te lo devo dire!
Ok , scusa.
Sei lento. Dove vai?
In bagno, posso?
Ascolta, Zero, non ho tutto questo tempo da perdere. Hai già sei minuti di ritardo.
Sei.
Sì sei. Lo sai che odio questo numero, quindi non mi far innervosire e sbrigati. Ti voglio fuori da qui, ora.
Sai quanto ho dormito stanotte? Tre ore.
È colpa mia sei fai tardi la notte?
Cos’è, ora non posso nemmeno andare a suonare la sera?
Ah, già, come va la tua carriera?
Che fai prendi per il culo?
Non essere volgare.
Come non detto, sono pronto.
Bravo il mio Zero.
Non mi chiamo Zero!
Lo sai che ti chiamiamo così, lassù.
Siete veramente insopportabili.
Andiamo ragazzo, stasera c’è un po’ di strada da fare.
Non lo sai? C’è il coprifuoco, non dobbiamo uscire, non possiamo spostarci più di duecento metri da casa, e poi ci vuole il foglio da firmare e se dici bugie passi anche processo.
Non ti preoccupare a quello ci penso io. Intanto esci.

Zero, mi chiama Zero. Da non crederci. Mi tocca uscire alle cinque del mattino, girare per la città deserta con il rischio di essere fermato da una pattuglia di ronda o di inciampare in un raduno di ratti incazzati come lame di coltello.
Poi iniziano le direzioni: vai a destra , ora procedi, passa il ponte la seconda a sinistra, vedi la chiesa? prosegui fino alla fine del viale, no, non qui, vai avanti verso la scuola e fermati davanti alla prima panchina del giardinetto. A volte mi fa girare per più di un’ora, per le strade deserte e umide di passi già finiti. Le ombre del dolore si attardano volentieri lungo le strade dove hanno accompagnato gli umani prescelti. E poi ci sono io, cane da tartufo dei reietti, dei rifiuti di Dio e della società. Li cerco, li scovo, li salvo, perlomeno per una sera, poi, domani si vedrà.
Eccolo, lo intravedo nella nebbia che si assottiglia a ogni passo, le mie suole sono stanche e affamate. L’uomo ora è davanti a me, il collo spezzato, la testa pesante sul petto, le braccia lungo i fianchi e le mani attaccate al selciato. Una marionetta sfinita.
Mi avvicino lo annuso, sa di vomito e vodka, una vita presa a prestito, da buttare nel cesso.

 

Francesco Pini Laboratorio Giovani Adulti
A un Metro da Davis”

 

Greta Di Nino Coro Voci Bianche

 

Valentina Donzella Laboratorio Giovani Adulti
È notte fonda. Cammino in equilibrio sulla linea bianca che divide la strada a metà, le braccia tese nell’aria, gli occhi sul cemento. La città dorme; si sentono solo il sospiro del vento e il ronzio delle luci al neon delle insegne. So che nessuno mi si avvicinerà, la gente ha il terrore di uscire dopo il coprifuoco.
Mi fermo, alzo gli occhi: le silhouettes degli alti grattacieli si stagliano sul cielo scuro, opaco dai fumi del giorno, tinto di un blu stanco, affaticato.
Mi lascio accarezzare da quel filo di vento, che porta con sé l’odore di cenere e di bruciato, troppo familiare ai miei sensi fin dall’infanzia.
Non conosco altro; la mia città, le sue strade, hanno l’inconfondibile sentore di fatica, di fabbriche che macinano prodotti, di fumi industriali. Non ho mai sentito il profumo di un fiore. In realtà, io un fiore non l’ho proprio mai visto.
Chiudo gli occhi, mi metto in ascolto: mi sembra che i miei piedi affondino nel cemento, mentre le mie mani si intorpidiscono sempre di più.
Respiro a fondo, finché non riesco più a riconoscere quell’odore acre e pungente che invade le mie giornate.
Il mio orecchio coglie il leggero fruscio dell’acqua in lontananza: dev’essere l’autolavaggio che si trova sulla strada parallela, che è aperto tutta la notte.
Ingannati, mi dico; c’è un ruscello che scorre al mio fianco, le sue acque sono così fresche che l’aria di colpo sembra più fredda, e scuote il mio corpo in un brivido. Se apro gli occhi nella mia mente, posso vede la luce della luna che si riflette sulla superficie cangiante, spruzzando scintille bianche ogni volta che si infrange sui margini della strada.
Ma nella mia mente, non c’è una strada; attorno al ruscello, argini alti prendono il posto dei negozi, delle case, delle macchine parcheggiate. C’è un albero, ed è la cosa più bella che io abbia mai visto.
Da quando siamo riusciti a rendere l’aria respirabile con le nostre macchine, da quando il cibo viene creato artificialmente, di alberi non se ne vedono più da nessuna parte.
I suoi rami si distendono e sfiorano l’aria, ondeggiando come se seguissero una musica segreta, impercepibile. Non ho idea di come sia toccare un albero, se la sua superficie sia solida oppure morbida, fresca o calda. Non so come riesca a stare in piedi; riesco solo a focalizzarmi su quell’immagine che ho visto da qualche parte, sulla sua chioma verde, sul suo busto imponente.
È un albero gentile, quello nella mia mente: allunga una delle sue molte mani, mi tende un frutto violaceo e luminoso, e quando lo accetto mi accarezza il viso delicatamente. Non riesco ancora a sentire di cosa sono fatte le sue dita, per quanto mi sforzi.
Se mordo il frutto, così diverso dai nostri cibi preparati e impacchettati, la mia bocca è invasa da una dolcezza infinita, da un sapore così intenso da darmi il capogiro. Poi lo sento; il vento, soffiando fra le foglie, inventa una musica delicata, affascinante; lui è il musicista, tutto ciò che mi circonda il suo strumento.
Un’orchestra di gocce comincia a picchiettarmi sul viso, e sono fresche e portano un profumo nuovo nell’aria, e anche io sono parte di questa melodia immaginaria. Guardando all’orizzonte, vedo un’alba sconosciuta, di quelle che non sfiorano mai le punte della città, che si sparge sul terreno con tutti i colori che l’occhio conosce, che riluce e cola come metallo fuso sulla mia realtà, che mi scalda il corpo e mi invade.
Apro gli occhi; il cielo si sta tingendo della nostra alba grigia e brumosa. Una sirena risuona nella città, la sveglia comune. I grattacieli sono tornati a soffocare il cielo. Se non corro a casa, mi prenderanno e mi chiuderanno nelle camere punitive. Il cemento sotto i miei piedi corre veloce, finche non arrivo alla porta di casa, e mi arrendo alla realtà che mi circonda, ancora una volta.

 

Maria Vittoria Minervini Laboratorio Giovani
Sono sempre stata una frana nelle parole crociate, ma queste sono state interessanti. Il lieto fine? Mi sono divertita un sacco!

 

Marco Carnevali Laboratorio Musical
La buffa storia d’amore tra Lam Rossa e Lam Blu
C’era una volta un autobus …
“Eh?! Ma che razza di storia è questa?” Lo so, perdonate la stranezza di questo racconto, ma d’altra parte non tutte le grandi avventure vengono vissute da eroi e principesse.
Dunque, dicevamo … un autobus. La linea Lam Rossa di Livorno, quella che partiva da Antignano Miramare e finiva alla stazione centrale, passando persino per vie un po’ sperdute nella periferia della città. Ecco, proprio in una delle fermate delle vie sperdute nella periferia si incrociava sempre con un altro autobus, la Lam blu. Entrambi partivano e arrivavano negli stessi punti, ma percorrevano strade completamente diverse. Eppure fu in quei pochi istanti passati insieme alla fermata che sbocciò l’amore ….
“COSA?! Ma come fanno due autobus a innamorarsi? Certo che è proprio una storia di …” Fantasia! Eh sì, care signore e signori, ci vorrà tanta fantasia per capire meglio questa storia. Non è forse necessaria per tutte le storie? Insomma, parliamo di draghi e streghe ed elfi in fondo all’arcobaleno, e non accettiamo una semplice storia d’amore tra due mezzi pubblici? Questa mi sembra un’assurdità!
Tornando al punto, non so spiegarvi bene come scoccò la scintilla elettrica tra i due autobus. Forse fu il riflesso di sole nello specchietto di uno che colpiva l’ammaccatura della Lam blu, oppure il flebile fumo che sbuffava dalla marmitta di questa sulle ruote frontali della Lam Rossa… Fatto sta che si innamorarono, e ogni minuto passato in quella stessa fermata si arricchiva di felicità e passione. Anche le persone che prendevano i due autobus assorbivano questa spensieratezza! Insomma, in quei mezzi regnava una pace indescrivibile (cosa assolutamente non comune nei mezzi di oggi!).
Un giorno, però, successe che Lam Blu non comparve alla fermata di capolinea all’inizio del turno. Lam Rossa voleva aspettare, “Magari l’autista è in ritardo …” pensava tra sé e sé; ma quando il suo autista accese il veicolo e inserì la prima, comprese subito che quel giorno non sarebbe arrivato il suo amato … In realtà non arrivò nemmeno i giorni dopo, e Lam Rossa sprofondò in una profonda tristezza. Molti sedili diventarono estremamente sporchi, e si cominciò a sentire una puzza nauseabonda in tutto il bus mentre la gente non faceva altro che urlare, ascoltare la musica a tutto volume e litigare per stupidaggini. Era come se tutta la gioia che da sempre aveva aleggiato su questo autobus fosse stata soltanto un sogno, lontano e perso tra le valli dei ricordi …
Dopo circa un mese dalla scomparsa di Lam Blu, un controllore abbastanza magro e pelato, scambiando due chiacchiere con l’autista della mattina, disse, tra un discorso e l’altro, qualcosa proprio riguardo all’autobus sparito. “Eh sì, dopo quell’incidente ha subito dei gravissimi danni … Ho provato a chiamare quelli dell’officina ma non mi hanno risposto …” Aspetta, un’officina! È lì che si trova Lam Blu!
Lam Rossa non stava più nella carrozzeria, doveva ritrovare il suo amato! Così, non appena l’autista inserì la marcia, Lam rossa si spinse con forza in avanti, e, essendo la strada in pendenza, cominciò ad accelerare fino a schiantarsi contro il cancello di una villa. Tutta la facciata del bus era distrutta, e l’autista, dopo aver imprecato insieme al controllore, gli disse sbuffando: “Mi toccherà portare questo catorcio in officina”. Sì! Il piano era riuscito. Solo che la botta che aveva preso Lam Rossa fu talmente forte che il suo entusiasmo fu represso da una sincope immediata (che nel caso degli autobus si manifesta con lo spegnimento di motore e luci).
E così Lam Rossa si svegliò proprio dentro l’officina. Si ritrovò circondata da moltissime persone in divisa da meccanico, e sopratutto da moltissimi autobus. Sarebbe stato impossibile ritrovare il suo Lam Blu in mezzo a tutti quei veicoli! La sua tristezza stava per prendere il sopravvento insieme a un senso di sconforto totale, quando ….
“Ehi! A questo qui manca tutta la facciata, come facciamo?”
“Eh, è proprio un bel casino … è uno dei modelli vecchi, non sono più in produzione di queste dimensioni”
“No aspetta, abbiamo un altro mezzo del suo stesso modello. Ha la facciata intatta, il resto è da buttare via. Potremmo riutilizzare quello”
E come per miracolo, ecco che portarono davanti a Lam Rossa … la facciata di Lam Blu! Sì, era proprio della sua Lam Blu, perché aveva la stessa ammaccatura in mezzo agli anabbaglianti.
Successe quindi che “fusero” la facciata dell’ex Lam Blu con il resto della Lam Rossa, dando vita a … un’altra Lam Rossa (il turno mancante della Lam Blu sarebbe stato rimpiazzato in qualche giorno da un altro autobus). Il loro sogno di ritrovarsi e passare il resto del loro tempo di accensione insieme si avverò, e piano piano ritornò quella pace e serenità che aveva contraddistinto la Lam Rossa da sempre, rendendo ogni viaggio, breve o lungo che fosse, una piccola grande avventura.
Così i due mezzi andarono solo su 4 ruote, e vissero per sempre per strada e contenti.

 

Lorenzo Occhetto Laboratorio Giovani.
La metropoli

Guardava quasi senza fiato. Percepiva ogni riflesso sui vetri opulenti, ogni rumore prodotto dalle macchine, dalle insegne. Chi lo avrebbe mai detto? Un ragazzino come lui, di appena vent’anni, che arrivava da un piccolo borgo, lontano ormai troppo, anni luce, da quella nuova realtà in cui era appena approdato. I suoi coetanei, che fino a poco tempo prima considerava uguali in tutto e per tutto, cominciò a vederli come sfortunati. Anzi, non sfortunati. Limitati. Limitati in quella piccola realtà, spenta e ormai superata. Limitati rispetto a lui, che aveva appena iniziato a vivere il suo sogno: la metropoli. Tutti quei colori, quelle luci, quei colori. Si avventurò per quelle enormi strade, che avrebbero potuto contenere due volte la sua casa. Le auto, per quanto le conoscesse già, gli parevano quasi creature da favola, tanto erano grandi e sfavillanti. Lo mettevano quasi in soggezione. Sentiva però in fondo al cuore una piccola sensazione di disagio, come se qualcosa fosse inevitabilmente fuoriposto. Si ripeteva che fosse per l’emozione. Non era ancora abituato a tutto quello. Spostò lo sguardo sui palazzi, enormi superfici rivestite di vetro ed acciaio, lucenti come il Sole. Ed anzi il Sole, a paragone con quei capolavori che vedeva, gli pareva quasi un po’ spento. Di seconda mano. Lì tutto era fantastico, lì tutto era grande: case, luoghi di lavoro, ristoranti, persone. Ah giusto, le persone. Improvvisamente quella piccola sensazione si fece più chiara. Ed importante. La gente. Le persone causavano il suo disagio. Erano esattamente come lui, ma si sentiva troppo diverso rispetto a loro. Non si prendevano mai il tempo di fermarsi a guardare. Andavano tutti dritti per la loro strada, quasi senza parlare fra loro. Se parlavano, era con qualcuno al telefono. Oppure inveivano contro qualcun altro che stava sulla loro strada. Non si prendevano il tempo di guardare. Il giovane cercò nuovamente di convincersi che fosse la normalità. D’altra parte, era lui che veniva da fuori. Per quanto avesse sentito storie su come si vivesse in città, su come fosse la vita lì, non aveva nessuna base veramente concreta con cui criticare i comportamenti di chi vedeva adesso. Si diresse verso la casa del fratello, che si era dato disponibile per ospitarlo. Lungo la strada vide enormi negozi con vetrine scintillanti, insegne al neon, spente ma talmente suggestive da parere quasi accese. Ed il giovane si dimenticò di nuovo della sensazione di disagio. Passò il resto del giorno con il fratello, che gli raccontò di come si fosse ambientato in città, dei suoi ritmi. Il giovane lo ascoltava come estasiato. Gli sembrava quasi di vedere quello che il fratello gli raccontava. I club ed i bar dove era andato con gli amici che si era fatto, gli odori dei ristoranti in cui aveva cenato. Immaginò di calcare i gradini delle grandi scali mobili dei centri commerciali. Di entrare in un negozio e comprare la prima cosa che gli piaceva, solo perché da dove veniva non esisteva neanche. Magari anche di andare nei bar con suo fratello e di ubriacarsi. Così, per scoprire come fosse. Le prime giornate passavano volando, tra meraviglie e novità. Andò nei supermercati, prese la metro ed i taxi, visitò i musei, fece lunghe camminate sul mare, visitò per tre volte l’acquario cittadino. Andò con il fratello allo stadio, anche se non seguiva lo sport, soltanto per poter urlare e tifare con gli altri. Per poter diventare come gli altri. Ma la meraviglia, dopo alcuni giorni, si esaurì. Cominciò a notare i lati più oscuri di quello che vedeva come un Paradiso in terra. La grande differenza classista che imperversava. La sensazione di superiorità che veniva trasmessa da chi possedeva un capitale maggiore. Le persone senza niente, che al posto di venire aiutate vivevano a bordo strada, o nei vicoli, trattate come parassiti. Il crimine. Non aveva mai visto davvero un crimine fino ad allora. Certo, di tanto in tanto con i suoi amici aveva commesso qualche birichinata nel suo borgo, ma quello era totalmente diverso. Lo colpì la brutalità del crimine, e la disperazione che portava a compierlo. Fu quello che lo colpì veramente. Assistette una volta ad un arresto, di un rapinatore. Si ritrovò a guardarlo negli occhi. Non gli misero paura come pensava. Gli fecero pietà. E nel mentre che cominciava a scendere giù, nella conoscenza di quella che ora era la sua realtà, suo fratello continuava ad essere felice. A comportarsi come se non esistessero quei lati negativi che il giovane vedeva. Il ragazzo pensava che lo facesse per auto convincersi, per rilassarsi, fingendosi felice così da ignorare e sopprimere l’oscurità di quella vita. La cosa gli metteva rabbia. Perché lui non ci riusciva. Provava, e provava, ma niente. Vedeva anzi ancora di più quel buio soffocante. Poi, la svolta definitiva. Mentre tornava dal lavoro che si era trovato, il giovane incontrò alcuni uomini della polizia sulla porta di casa. Riconobbe l’uomo che aveva effettuato l’arresto che, tempo prima, lo aveva tanto turbato. Gli dissero che il fratello era morto. E, per il giovane, il mondo per un momento smise di esistere. Si sentì mancare la terra sotto i piedi. Si sedette, mentre gli agenti farfugliavano condoglianze ed altre frasi di rito. Gli dissero anche la causa della morte. Ma lui non li sentiva. Perché per lui la risposta era già chiara. Era stata quella città ad ucciderlo. Che l’avesse fatto con il crimine, con un incidente, con le persone, con gli oggetti, non importava. Glielo aveva portato via. Era rimasto solo. Un ragazzino di appena vent’anni, proveniente da un borgo troppo lontano, distante anni luce da quella che ormai era la sua realtà. Pensò ai suoi coetanei, prima del tutto simili a lui, e adesso a paragone fortunati. Anzi, non fortunati. Liberi. Liberi, in quella piccola realtà, calda ed accogliente. Liberi, rispetto a lui, che viveva in quello che era il suo incubo: la metropoli. Vagò in mezzo ad essa, con in mente solo il fratello. Vagò per ore, finché non si fermò in un punto preciso. Davanti al primo locale nel quale aveva cenato con il fratello. Rivisse per un istante tutte le bellissime sensazioni che aveva provato, in quella prima volta, vicina nel tempo ma distante ormai eoni nel suo spirito. E capì. Capì perché il fratello continuava ad essere felice. Non si illudeva, come pensava il giovane. Semplicemente riusciva a guardare oltre. Oltre a quella negatività tetra. Oltre al primo strato di quella tentacolare e complicata metropoli. Riusciva a vederne il bello. E ci si era affezionato. Capì che il fratello amava quella città, perché, se sapevi come prenderla, riusciva a rimanere bella anche con i suoi oscuri angoli. Ed anzi, forse si riprometteva di illuminarli quegli angoli. O forse no. Non importa, lo avrebbe fatto lui. Perché in quel momento, il ragazzo fece una promessa. Al fratello. A chi era rimasto nel suo borgo. A sé stesso. Avrebbe illuminato l’oscurità della città. O almeno ci avrebbe provato. Ma l’avrebbe amata lo stesso. Come l’aveva amata suo fratello. Tornò a casa che stava albeggiando. Decise di salire in cima al palazzo dove abitava. Da lì vide il panorama aprirsi sotto una nuova forma ancora. E si fermò a pensare. Chi lo avrebbe mai detto? Un ragazzo come lui, di quasi ventuno anni, proveniente da un piccolo borgo, distante ormai troppo, anni luce, da quella realtà che aveva scelto come sua. Respirò a fondo, e riuscì nuovamente a trovare sorprendente quel che gli si parava davanti, che aveva sempre visto, ma che osservava con occhi nuovi. Respirò a fondo nuovamente. E poi scese giù. Scese verso la sua nuova vita: la metropoli.
Alessia Russo Laboratorio Giovani Adulti.
Titolo: Let’s bridge
“Torneremo ad incontrarci, ad abbracciarci e ad abbattere insieme ogni barriera.”
Flashmob Genfest, Budapest 2012

 

Marica Apostolo Gruppo Maia
Storie a lieto fine nel deserto delle metropoli
Nei parchi milanesi sono tornate le lepri a godersi il silenzio, l’aria pulita, la libertà: la Natura è così, non aspetta domani per guarire le ferite e mentre le luci del tricolore illuminano i monumenti romani il cielo limpido respira l’Inno di Mameli.

 

Nina Traina Coro Voci Bianche
Titolo: “il cuore della città “ tempera su cartoncino

 

Samuele Bartolini Laboratorio Giovani Adulti
Coppia di venditori di tappeti nel mercato periferico di Mosca.

 

Leonardo Corti
Ho scelto questa foto perché si vede la città che si è spenta (come dopo aver premuto l’interruttore della luce). Neanche un lampione riesce a illuminare lo spazio. Ma allo stesso tempo il cielo continua a vivere, si colora di rosa e di blu. La primavera non ne sa nulla di gente a casa, di strade vuote o di altro.

 

Sara Bianchi Laboratorio Giovani Adulti
Incontri

 

Alessandro Contini Laboratorio Giovani Adulti
Oklahoma City

(Versione con inserto audioguida)

Sento il vento che mi chiama
Un avventua è all’orizzonte
La metropoli è lontana
Ma io seguo le sue impronte

Lo schiarir del cielo immenso
Sopre la mia folta chioma
È un segnale, un sesto senso
Per partir per l’Oklahoma

Fu selvaggio il territorio
Con grandi tribú indiane
Ora da quel promontorio
Nascon metropolitane

Prendo la prima che passa
Mi rilasso sul vagone
Ma ad un tratto mi si ammassa
Una mandria di persone

Esco appena posso il passo
Che la gamba mi sostiene
sotto il mucchio io collasso
E urlo: siete delle iene!!!

L’ammucchiata molto offesa
Dall’epiteto mio detto
Mi raccoglie di sorpresa
E mi spedisce sopra il tetto

Àhi! che male alla schiena
Brutto urto alla fiancata
Rotolavo a pergamena
Per saltar sulla fermata

Detto fatto che atterrai
Su due luridi banditi
Benvenuto! Già nei guai?
Questa è Oklahoma City!

Con un impeto furente
Mi liberai degli aggressori
Tra scale mobili e fra la gente
Feci il percorso fino a fuori

Si respira! libertà!
Mai sapor fu cosi angelico
Passeggiando per la città
Sembra proprio un posto magico

La morale vuoi sapere
Dell’avventura ormai narrata?
Una città non giudicare
Senza averla un po’ girata
Noemi Egizzo Laboratorio Giovani Adulti

 

Francesco Orsini Teatro Bambino
Ciccio sono io, Francesco. Sono alto più di un metro, abito in una piccola METROpoli, ho un carattere particolare, sto ai POLI, Mi piace aiutare la mia mamma a cucinare e per questo lei mi ha fatto il grembiule con la scritta “CUOCO”. Mangio tanto, di tutto un METRO, anche se sono magro, a volte però faccio gli incubi: la mia pancina scoppia e il cibo mi insegue… AIUTOOOOO!!!! Però poi mi sveglio e per fortuna: era solo un sogno….

 

Chiara Bersotti Laboratorio Giovani Adulti

 

Francesca Toto Laboratorio Giovani Adulti

 

Matteo Trematerra Laboratorio Giovani Adulti
La Metropolitana

 

Marzio Gavriel Canova Laboratorio Teatro Bambino 1
METRO dance!

 

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